Cineasti nella riserva


    Mi è stato chiesto di parlare di cinema in quanto sono un "immigrato" che si occupa di cinema, o più precisamente di parlare del cinema degli immigrati. Ecco le osservazioni che mi sembrano necessarie, anche se non sono che banalità; tuttavia le formulo qui perché non ho avuto occasione di leggerle in qualche altra pubblicazione.
1.
    Se è logico parlare del cinema della em/immigrazione, è sbagliato concettualmente e praticamente parlare di cinema degli em/immigrati. Consideriamo alcuni tra gli innumerevoli esempi a disposizione. Sono di fatto sul tema dell'im/emigrazione film come L'emigrante, Viva l'America e Barry Lindon. Sarebbe corretto di parlare di regista "immigrato" per Charlie Chaplin, cittadino inglese che ha operato negli Stati Uniti, per Elia Kazan, di origine turca con cittadinanza americana, o per Stanley Kubrick, cittadino americano che lavorava in Inghilterra? E Fritz Lang il "tedesco", Joseph Manckiewicz il "polacco", Milos Forman il "cecolslovacco", Jean Luc Godard lo "svizzero" e tanti altri?


2.
    Se oggi il livello di coscienza dominante sul pianeta Terra costringe gli artisti del cinema ad una schedatura-segregazione in termini di cittadinanza, attestata da un documento chiamato passaporto, i veri artisti del cinema, quelli che hanno influenzato veramente l'immaginario degli spettatori, non sono schedabili in base alla cittadinanza, né in base al pezzo del pianeta (chiamato paese o nazione) dove sono nati. In termini semplici, gli artisti del cinema, in quanto artisti, e le loro opere, in quanto opere artistiche, non hanno nazionalità. Ecco alcuni esempi significativi. Addetti ai lavori e "conoscitori", specialmente inglesi, hanno schernito Orson Welles per il suo progetto sulla realizzazione di Othello. Come? Un barbaro americano oserebbe avvicinarsi all'inglese "tipico" Shakespeare? Chi altro che un inglese puro - sangue potrebbe capire Shakespeare e portarlo in scena? Sappiamo invece quale fu il risultato: l'Othello di Orson Welles, premiato a Cannes nel 1949, è uno dei capolavori del cinema e, per me, il migliore adattamento cinematografico dell'Othello di Shakespeare. E sapete quali sono stati i realizzatori dei film più "americani", tra i quali Un tram chiamato desiderio, Fronte del porto, Hair? Rispettivamente il "Turco" Elia Kazan ed il "Cecoslovacco" Milos Forman. E chi è il regista di questo film squisitamente "francese": A bout de soufle? Lo "Svizzero" Godard. E sapete che il migliore film fatto sulla guerra di liberazione nazionale algerina non fu l'opera di un algerino o di un francese, ma di un regista di cittadinanza italiana: La battaglia di Algeri è opera di Gillo Pontecorvo.
3.
    Conclusione: in base alla mia esperienza personale, chi parla di cinema degli immigrati piuttosto che di cinema sull'im/emigrazione, contribuisce anche se inconsapevolmente all'emarginazione-ghettizzazione-esclusione di quei cineasti provenienti da questi paesi d'emigrazione. L'esperienza della produzione cinematografica mondiale dimostra che la capacità di realizzare un'opera cinematografica in e su realtà di un determinato paese non dipende, per un autore cinematografico, esclusivamente dalla sua origine, ma prima di tutto dalla capacità artistica di questo autore di capire e rendere credibile ciò che mette in scena. Questa constatazione appare oggi più banale che quattro secoli fa, quando il "tipico inglese" Shakespeare scrisse "la tipica storia italiana" di Romeo e Giulietta. L'esperienza cinematografica mondiale dimostra inoltre un altro fatto. Coloro che decidono la produzione cinematografica nei paesi occidentali, si sono sempre arrogati il diritto di realizzare opere sul cosiddetto "Terzo Mondo", mentre hanno sempre negato agli artisti del "Terzo Mondo" di fare lo stesso sui paesi occidentali. Come se gli artisti occidentali fossero talmente intelligenti che possono capire e fare dei films sul "Terzo-Mondo", al contrario degli artisti del "Terzo-Mondo" che sarebbero troppo stupidi per capire e fare dei films sull' "Occidente". E quando questi cineasti sono stati finanziati dai paesi occidentali in cui vivono, lo sono stati esclusivamente per parlare di "Terzo Mondo e di immigrati. Il motivo, anche se non espresso, è quello della presunta incapacità di questi cineasti di realizzare opere sulle realtà dei paesi dove vivono. Eppure l'americano Bowles può parlare dei Marocchini, e l'italiano Bertolucci può fare il film Tè nel deserto, raffigurazione tipica, anche se questo cineasta è di "sinistra", dell'inverosomiglianza, segno della ignoranza e della superbia occidentali  nei confronti del "Terzo Mondo". Si potrebbe dunque dire che gli "Indiani", gli "Indigeni", i "Negri", gli "ex-colonizzati", i "sotto-sviluppati" sono buoni solo e quando rimangono nelle loro "riserve" geografiche e culturali, e parlano delle loro "incomprensibili e misteriose" realtà. Ma non possiederebbero l'intelligenza e la sensibilità necessarie per capire e rappresentare le realtà occidentali. La Chiesa cattolica, basata sul palestinese Gesù, ha impiegato molti secoli per riconoscere ai "Negri" un'anima. È necessario un altro immenso sforzo per gli Occidentali, di "destra" o di "sinistra" che siano, per riconoscere ai "Negri" cineasti, una capacità artistica che vada oltre le "riserve" chiamate "Terzo Mondo". Lo stesso sforzo è necessario ai "Bianchi" per rendersi conto ed accettare che Gesù e Maria, in tutta probabilità, non potevano avere capelli biondi e occhi celesti, ma i caratteri somatici di persone appartenenti al popolo palestinese. A mia conoscenza, esiste una sola eccezione a questa arbitraria "bianchificazione" di Gesù e Maria: il film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo.
Forse quando questo sasso perso nell'immensità dell'Universo, questo pianeta Terra, diventerà un unico paese, forse allora ad ogni cineasta, indipendentemente dal suo luogo di nascita, sarà riconosciuta la capacità e conferita la possibilità di realizzare un'opera cinematografica su qualsiasi realtà di un'altra parte del pianeta. Dico forse perché nel paese dove, ad eccezione degli Indiani, tutti sono degli immigrati, negli Stati Uniti d'America, non è ancora generalmente possibile per gli immigrati di pelle nera fare film sugli immigrati di pelle bianca, mentre il contrario sembra normale. Ne sono testimoni i "neri" americani Sidney Poitiers e Spike Lee, ma anche il "bianco" John Ford con il suo "nero" Sergente York.


Pubblicato nella rivista Caffè, n. 3, Roma, marzo 1995.